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Carta da macero: definizione di rifiuto, Mps, tracciabilità ed esportazione


05 June 2008

Borsarifiuti.com vi segnala un interessante articolo di approfondimento realizzato da Greenreport in collaborazione con Reteambiente sulla carta da macero.

1 - La disciplina nazionale

1.a) Qualche dato

Come documentato dai dati Istat sul commercio estero e dagli studi pubblicati da Comieco e Assocarta, l’Italia, grazie alla costante crescita delle raccolte differenziate dal 1998 a oggi, è diventata un “esportatore netto” di carta da macero dal 2004.
In particolare, nel 2007, l’Italia ha esportato 1.079.000 tonnellate di carta da macero: la Cina è diventato il primo paese di destinazione con 426mila tonnellate (circa il 40% del totale export). Il valore medio delle tipologie più povere di carta da macero esportata (dati Istat) è stato superiore a 101 euro/ton.
La carta da macero esportata rappresenta un “surplus” costituito da materiali poveri (mixed paper da raccolta differenziata e da raccolta presso aziende e grande distribuzione). Se l’Italia interrompesse questo flusso di esportazione (rendendolo troppo oneroso o assoggettandolo a vincoli burocatici impossibili da sostenere), le conseguenze sulle attuali raccolte differenziate sarebbero immediate: o si interrompono le raccolte o si ritorna in discarica dopo aver fatto raccolta differenziata. Si presume pertanto che i costi saranno ribaltati sui Comuni e quindi sui cittadini, con danni certi sul mercato della stessa industria cartaria nazionale e una impossibilità operativa anche per il sistema Conai/Comieco.

1.b) il Dlgs 3 aprile 2006, n. 152 (e sue modifiche)

Le Mps (materie prime secondarie), come noto, a livello comunitario non sono definite; tuttavia sono citate. Quindi, sotto il profilo concettuale, la loro esistenza viene riconosciuta dal Legislatore europeo.
Infatti nella direttiva 2006/12/Ce, l’articolo 3, comma 1, lett. b), stabilisce che “gli Stati membri adottano le misure appropriate per promuovere …in secondo luogo: il recupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo od ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie …”.

La direttiva è in corso di profonda revisione ma, allo stato attuale, la relativa modifica non è vigente nell’ordinamento giuridico europeo e meno che mai in quello nazionale. Del resto (al pari della direttiva 2006/12/Ce, testo armonizzato delle precedenti direttive 91/156/Cee e 75/442/Cee), la futura direttiva non sarà autoapplicativa (o “self executing"); quindi, tutti i principi ivi contenuti (anche se – in ipotesi – favorevoli alla individuazione del “non rifiuto") dovranno essere tradotti nell’ordinamento nazionale con apposito provvedimento, prima di essere applicati.

Anche a livello nazionale, a decorrere dal 13 febbraio 2008 (data di entrata in vigore del Dlgs 4/2008, correttivo del Dlgs 152/2006), la definizione di Mps è assente. Invece, nella versione originale del Dlgs 152/2006 (quindi, dal 29 aprile 2006 fino al 12 febbraio 2008) le Mps venivano definite dall’articolo 183, comma 1, lett. q), con rinvio all’articolo 181, commi 6, 12 e 13, che le definivano, integrando gli estremi di una importante norma “ricognitiva” solo in parte, poiché dettava principi specifici.

Nel testo vigente del Dlgs 152/2006, ora si reperisce ancora una norma di carattere solo parzialmente “ricognitivo” (nel senso che vengono dettate anche le linee guida per l’emanazione del futuro Dm e si citano due principi generali in materia di recupero) nell’articolo 181-bis, commi 1 e 2, Dlgs 152/2006 (come novellato dal Dlgs 4/2008), dove il Legislatore fornisce i criteri per la futura individuazione delle Mps ad opera di un apposito Dm. Tuttavia, non esiste alcuna definizione di Mps.

Tali criteri sono i seguenti:

• origine: un’operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti (quindi, non è mai possibile confondere le Mps con i sottoprodotti che, invece, trovano origine in un ciclo produttivo che, per brevità, potremmo definire manifatturiero);

• individuazione: provenienza, tipologia e caratteristiche dei rifiuti dai quali si possono produrre Mps (potenziali), nonché operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che producono Mps (effettive);

• fissazione di requisiti ambientali e merceologici: criteri di qualità ambientale, requisiti merceologici ed altre condizioni necessarie per l’immissione in commercio (norme e standard tecnici richiesti per l’utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all’ambiente e alla salute derivanti dall’utilizzo o dal trasporto della Mps che può essere un materiale, un prodotto o anche una sostanza);

• ulteriori caratteristiche: effettivo valore economico di scambio sul mercato e particolari caratteristiche.

Fino a quando tale Dm non sarà emanato, l’articolo 181-bis, Dlgs 152/2006 con i suoi commi 3 e 4, traccia il regime transitorio per “legare” al presente il sistema pregresso.

Oggi, pertanto, fino all’emanazione del futuro Dm, il sistema è il seguente:

• comma 3: continuano ad esistere le Mps citate ed individuate dal Dm 5 febbraio 1998 (oltreché 161/2002, per i rifiuti pericolosi);

• comma 4: continuano ad esistere le cd. “Mps fin dall’origine”, cioè quelle che sono presenti nella circolare MinAmbiente 29 giugno 1999, n. 3402/V/Min. Si tratta di quei materiali, sostanze od oggetti che, senza necessità di trasformazione alcuna, già presentino le caratteristiche delle Mps di cui al Dm 5 febbraio 1998 (si pensi alle rese invendute dei giornali) o al Dm 161/2005.

Tutto questo non può far dimenticare che il nuovo articolo 181, comma 3, Dlgs 152/2006 ribadisce che “la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero”.

Il concetto era presente anche nella versione originale del Dlgs 152/2006 (articolo 181, comma 13), il quale però aveva il valore aggiunto di stabilire quando si realizzasse tale “completamento delle operazioni di recupero”, individuandolo in un momento preciso: quando non sono necessari ulteriori trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come Mps, combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo di disfarsene.

Come è evidente, dunque, il disfarsi rappresentava la condizione cardine in presenza della quale l’Mps non esisteva.

Condizione che, nel testo attuale del Dlgs 152/2006, non esiste più (al pari del concetto), ma solo in apparenza, poiché essa è connaturata alla nota definizione di rifiuto.

1.c) il Dm 5 febbraio 1998 (e sue modifiche)

Anche il Dm 5 febbraio 1998 (e sue modifiche) non contempla la definizione di Mps, ma ne opera un censimento come dato di realtà.

Infatti, nei vari paragrafi dell’allegato 1, suballegato 1, si reperisce sempre un paragrafo dal titolo “Caratteristiche delle materie prime e/o dei prodotti ottenuti”.

Il Dm 5 febbraio 1998, dunque, riconosce e traduce in termini legislativi il dato saliente dell’attività di recupero, il quale risiede nel fatto di poter trarre nuova utilità da un qualcosa che in difetto di quello che potremmo definire “riprocessamento industriale” non avrebbe alcuna utilità per nessuno e potrebbe solo essere destinato allo smaltimento. Del resto, anche sotto il profilo concettuale, che senso avrebbe recuperare se dal recupero si continuano a ricavare rifiuti?

Si è già detto del fatto che il nuovo articolo 181, comma 3, Dlgs 152/2006 ribadisce che “la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero”.

Tale principio trova la sua forma speculare nella disciplina attuativa (oggi riconfermata); infatti, l’articolo 3, comma 3, Dm 5 febbraio 1998 stabilisce che “restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione”.

In sostanza, dunque, le Mps derivanti dal recupero sono una sorta di rifiuti “depotenziati” che cessano di essere tali solo se e quando vengono “destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione”.

Quindi, è evidente che il completamento delle operazioni di recupero coincide con l’effettività e l’oggettività dell’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione. In difetto di tale elemento nessun materiale, neanche il più nobile, cessa di essere rifiuto.

Il problema, dunque, risiede tutto nel capire:

- quando ricorre il “disfarsi";

- “quando” le operazioni di recupero si completano;

- “come” provare che tale completamento è effettivamente avvenuto affinché il recupero sia “effettivo ed oggettivo”.

Con riguardo al sistema della carta, oggi, il sistema sembra essere il seguente:

• il rifiuto in carta non sottoposto a selezione e cernita arriva direttamente in cartiera per essere recuperato in forma di carta, cartone e cartoncino. Tale cartiera deve essere opportunamente autorizzata (ex Dm 5 febbraio 1998) poiché è presso la cartiera che avviene il “riprocessamento industriale";

• il rifiuto in carta non sottoposto a selezione e cernita viene avviato ad un impianto di recupero (piattaforma) dove si procede alle operazioni di cui al punto 1.1.3, lett. b), all. 1, suball. 1, Dm 5 febbraio 1998, in esito alle quali l’impianto “produce” le Mps per le cartiere e rispondenti alle specifiche Uni-En 643. Cartiere che in tal caso non ricevono rifiuti ma Mps;

• i materiali post-consumo che sin dall’origine hanno le caratteristiche delle Mps indicate nel Dm 5 febbraio 1998 (es. rese invendute di giornali) che ritornano alle cartiere in qualità di Mps fin dall’origine. Anche in questo caso le cartiere non ricevono rifiuti.

2 - La sentenza Cass. Pen. Sez. III, 6 febbraio 2008 n. 5804

2.a) La sintesi della sentenza 5804/2008
Nella sua qualità di giudice di legittimità, la Corte con tale sentenza ha stabilito il seguente principio di diritto: non si può invocare la disciplina delle Mps e ricorre un’ipotesi di gestione di rifiuti, nel caso di materiali prodotti da terzi (nella specie carta da macero) oggetto di attività di cernita e selezione e successivo conferimento ad una distinta impresa che li utilizza nel proprio ciclo produttivo.

Un principio importantissimo del quale è necessario tenere il debito conto. La sentenza è stata pronunciata a seguito del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica “per violazione di legge” avverso la sentenza di assoluzione (“perché il fatto non sussiste”) pronunciata dal Tribunale di Tivoli nei confronti di alcuni soggetti imputati di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi. Alcuni di tali soggetti sottoponevano la carta da raccolta differenziata a cernita e selezione, generando Mps, e un altro soggetto – titolare di una cartiera – prendeva tale carta cernita e selezionata (macero) non come rifiuto, ma come Mps per impiegarla direttamente nel ciclo produttivo, senza alcun trattamento preventivo, avendo la stessa funzione della cellulosa.

Il processo era iniziato sotto la vigenza del “Decreto Ronchi” ed è approdato dinanzi alla Cassazione sotto la vigenza del “Codice ambientale”. La Corte ha riconosciuto la continuità normativa tra i due testi.

Fondamentalmente la Corte fa leva su due dati:

1) “disfarsi"; infatti la Corte afferma che non si tratta di Mps ma di rifiuti perché “in ogni caso il detentore di esse si era già disfatto dovendo il termine essere univocamente riferito al detentore originario della sostanza utilizzabile come Mps";

2) la cernita e la selezione non fanno perdere al rifiuto tale qualità perché la riutilizzazione del macero in cartiera presuppone inevitabilmente l’impiego di ulteriori trattamenti oltre la mera attività di cernita e selezione;

2.b) perché la sentenza 5804/2008 non è condivisibile
In entrambi i casi la sentenza appare oltremodo non condivisibile; sotto il primo profilo perché il concetto di Mps presuppone sempre che si sia in presenza di un rifiuto, in relazione al quale è possibile un’attività di recupero e che quest’attività sia idonea, appunto, a generare una Mps. Diversamente, tutto il sistema del recupero appare illogico.

Sotto il secondo profilo, si osserva che se il Dm 5 febbraio 1998 individua la selezione e la cernita (intesa come eliminazione di impurezze e materiali contaminanti) che unitamente al compattamento in conformità alle specifiche ivi individuate consentano di avere macero a norma Uni En 643 (cioè l’Mps); pertanto, non è facilmente comprensibile la presa di posizione della Cassazione anche in considerazione del fatto che il Dm 5 febbraio 1998 è – di fatto – uno standard tecnico, dotato in quanto tale di una sua specifica capacità: quella di comprimere la discrezionalità del pubblico potere.

Quello che il Legislatore richiede alle Autorità pubbliche (variamente articolate) è una “cooperazione” sulla verifica del rispetto degli standards; tanto che il mancato rispetto degli standards accertato dalle Autorità competenti comporta il divieto di inizio o di prosecuzione dell’attività; ma solo il mancato rispetto di quanto stabilito dal Dm 5 febbraio 1998, determina tale conseguenza, non altro. Il che accade proprio in virtù di quella valutazione discrezionale effettuata a monte dal Legislatore fondata, sotto il profilo scientifico, tutta ed unicamente sulla natura giuridica degli standards che, si ripete, risiede nella loro capacità di costituire limiti alla discrezionalità del pubblico potere.

In virtù della esistenza dei citati standards, dunque, la P.a. (variamente concepita) non deve più stabilire se dallo svolgimento di una determinata attività possa derivare un pregiudizio per l’interesse pubblico. Questo perché l’interesse pubblico generale e collettivo è già tutelato a monte proprio da quegli standards.

La P.a. non deve (proprio perché non può) porre alcun limite all’esercizio di una facoltà inerente il diritto soggettivo di recuperare rifiuti in una determinata forma; di ciò si sono già fatti carico gli standards, il cui rispetto fa venir meno la compressione al libero esercizio delle facoltà inerenti a quel diritto soggettivo. La P.a. deve solo porre in essere un controllo del rispetto dello standard, mediante un cd. “atto vincolato”. Vincolato da cosa? Dagli standards, appunto, senza scendere (poiché non facoltizzata al riguardo) nel loro merito tecnico.

Quindi la P.a. deve accertarsi del rispetto rigoroso degli standards da parte di una determinata impresa senza scendere nel merito se una determinata metodica individuata dagli standards medesimi possa essere o meno effettivamente dannosa per l’ambiente, né interpretare estensivamente o restrittivamente quanto ivi previsto (del resto non si tratta di legge formale e astratta che sopporta e necessita di interpretazione, ma di mera elencazione) (1).

In sostanza la Corte di Cassazione sembra voler dire che (nel caso del macero) può essere Mps solo il pulper. Forse è anche vero, ma nella disciplina positiva questo dato non è presente e pretenderlo significa ledere il principio di legalità.

Laddove si volesse addurre che le Mps nel nostro Paese non esistono perché non contemplate dalla direttiva 75/442/Ce, ora 12/2006, è appena il caso di ricordare che, contrariamente a quanto affermato da una parte della Dottrina, la Corte Costituzionale, con ordinanza 28 dicembre 2006, n. 458 (2) ha stabilito che

• “– contrariamente a quanto si afferma nella sentenza impugnata – la norma denunciata non potrebbe essere, tuttavia, direttamente disapplicata dal giudice nazionale in quanto incompatibile con il diritto comunitario, giacché la direttiva sui rifiuti non è «autoapplicativa», necessitando di un atto di recepimento da parte dei singoli Stati membri;

• in senso contrario, non varrebbe addurre che la nozione di rifiuto di cui alla direttiva 75/442/Cee risulta richiamata dall’articolo 2, lettera a), del regolamento Cee 1° febbraio 1993, n. 259/93, di diretta applicazione nell’ordinamento italiano: giacché tale richiamo ha valenza limitata alla sola materia delle spedizioni di rifiuti, disciplinata dal regolamento stesso, e non è dunque riferibile né all’abbandono, né alle attività di gestione dei rifiuti diverse dalla spedizione (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento);

• neppure, poi, si potrebbe sostenere (in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario, sia originario che derivato) che il giudice nazionale debba dare comunque applicazione alla sentenza della Corte di giustizia, che ha espressamente statuito l’incompatibilità comunitaria dell’articolo 14;

• le pronunce della Corte europea che precisano o integrano il significato di una norma comunitaria hanno, difatti, la stessa efficacia della norma interpretata;

• di conseguenza, mentre nel caso di norma comunitaria direttamente efficace nell’ordinamento dei singoli Stati, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna con essa contrastante alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia; nel caso in cui, invece – come nella specie – si tratti di norma comunitaria priva di efficacia diretta, il giudice italiano rimarrebbe comunque vincolato dalla norma interna;

• l’unico modo per rimediare al vulnus da questa recato ad una direttiva comunitaria non direttamente applicabile sarebbe, dunque, quello di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione degli obblighi di conformazione all’ordinamento comunitario, sanciti dall’articolo 11 Cost. e, in modo ancor più esplicito, dal primo comma del novellato articolo 117 Cost.; …”.

3 - Gli oneri probatori in materia di recupero agevolato, di Mps e il principio di effettività del recupero

3.a) Gli oneri probatori
Con l’auspicio che la pronuncia della Cassazione resti un caso isolato (e soggetto a possibile riforma da parte di altro Collegio) (3) e che il Ministero dell’ambiente dirami una circolare interpretativa sul punto, si rende necessario a questo punto tornare alle regole generali sul recupero, affrontando la questione in una prospettive diversa, e precisamente: per verificare l’applicazione della normativa sul recupero (cioè della possibilità di qualificare i materiali come Mps) è necessario passare attraverso la verifica del rispetto del relativo regime probatorio, illustrandolo alla luce dei noti principi dell’effettività e dell’oggettività del recupero e di quello in virtù del quale chi invoca un regime di favore (come il recupero agevolato) ha l’onere di fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni per la sua applicazione .

Come noto l’articolo 216, Dlgs 152/2006 (riproponendo l’articolo 33 del “Decreto Ronchi") prevede che purché siano rispettate le norme tecniche e le prescrizioni specifiche di cui all’articolo 214, commi 1, 2 e 3, l’esercizio delle operazioni di recupero dei rifiuti può essere intrapreso decorsi novanta giorni dalla comunicazione di inizio di attività alla provincia territorialmente competente.

Nella stessa prospettiva:

- l’articolo 3, comma 3, Dm 5 febbraio 1998, dispone che “restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione” (di analogo tenore l’articolo 3, commi 4 e 5, Dm 161/2002 sul recupero agevolato dei rifiuti pericolosi);

La norma enuncia il principio fondamentale in materia di recupero agevolato, quello di effettività del recupero.

Il principio vale sia per chi recupera, ma anche per chi, raccogliendo e trasportando i rifiuti destinati al recupero, invoca il regime agevolato per lo svolgimento di tale attività (il che è confermato dall’articolo 212, Dlgs 152/2006, comma 18, con riferimento ad attività di raccolta e trasporto dei rifiuti sottoposti a procedure semplificate ai sensi dell’articolo 216, ed effettivamente avviati a riciclaggio e recupero). Il principio risale ai Dl che avevano preceduto il “Decreto Ronchi”, ove era costante la regola dell’applicazione del Dpr 915/82 se i rifiuti individuati come residui e i materiali disciplinati dai vari decreti non fossero destinati in modo effettivo ed oggettivo al riutilizzo (4).

In osservanza di ciò, ancora prima dell’entrata in vigore del “Decreto Ronchi”, la Cassazione aveva fatto più volte applicazione del principio di effettività, ribadendo che:

a) occorre la destinazione attuale, effettiva ed oggettiva al reimpiego produttivo (o in un processo di combustione) dei rifiuti e non è sufficiente la mera idoneità del materiale a tale trattamento (5);

b) è necessario verificare con precisione che il riutilizzo rispetti “provenienze” e “destinazioni” individuate dalla normativa tecnica (6);

c) l’onere della prova incombe su colui che invoca il regime differenziato (7). Il detentore deve offrire la prova rigorosa della destinazione attuale, effettiva ed oggettiva al reimpiego produttivo, affinché il materiale ceduto possa essere considerato residuo, altrimenti soggiace alla disciplina ex Dpr 915/1982; l’esclusione della responsabilità penale non può basarsi sulle mere dichiarazioni soggettive dell’interessato (8).

Tali affermazioni sono state riprese anche nella vigenza del “Decreto Ronchi” e del Dlgs 152/2006, poiché i principi ivi presenti sono identici (9).

In tale prospettiva si colloca anche la sentenza Cass. Pen., Sez. III, 14557/2007, ove l’esclusione della presenza di una Mps è giustificata dal rilievo della mancanza di una duplice prova in ordine a:

• rispetto delle caratteristiche tecniche specifiche richieste dal Dm 5 febbraio 1998 e dal Dm 161/2002;

• dell’effettiva ed oggettiva destinazione all’utilizzo in cicli di produzione o di consumo, come espressamente richiesto dagli stessi Dm.

Tutto quanto precede, si è reso necessaria per capire come comportarsi dinanzi ad un ordinamento che, alla luce della sentenza 5804/2008 sembra smentire sé stesso o, quantomeno, entrare in una profondissima contraddizione.

3.b) Come fornire, in concreto, la prova dell’effettività del recupero
Innanzitutto, è necessario fornire la prova della corrispondenza del materiale alle previsioni della normativa tecnica di cui al Dm 5 febbraio 1998 (o 161/2002) (10).

In ordine alla destinazione effettiva ed oggettiva all’utilizzo in cicli di produzione o di consumo, la prova più “rassicurante” è di certo quella documentale, ed in tale ambito assumono particolare rilevanza atti diversi ed ulteriori rispetto al solo contratto tra i vari soggetti interessati.

Si pensi a:

• lettere comprovanti la ripetitività del rapporto;

• analisi o perizie di parte sulle caratteristiche del materiale;

• informative sulla compatibilità dello stesso con l’impianto di destinazione;

• procedure di controllo a campione;

• riscontri tra registri e formulari;

• indicazione sul Ddt della cartiera di destinazione.

Sono questi elementi necessari (e sufficienti) per provare, sulla base di parametri di normalità e buona fede, il rispetto delle condizioni di legge (fermo restando che la valutazione della prova va fatta caso per caso) (11).

Un conforto a tale interpretazione viene dal Dm 26 gennaio 1990 (Individuazione delle materie prime secondarie e determinazione delle norme tecniche generali relative alle attività di stoccaggio, trasporto, trattamento e riutilizzo delle materie prime secondarie), anche se trattasi di provvedimento riferito alla disciplina anteriore al “Decreto Ronchi” ed ormai superato, stante l’interpretazione che la Corte costituzionale diede del suo articolo 3 con la sentenza 512/1990 (che annullò diversi articoli del decreto per violazione delle competenze statali) (12).

Inoltre, occorre precisare che, se il rifiuto non viene avviato al recupero bensì allo smaltimento, l’eventuale comunicazione inviata dall’interessato è del tutto irrilevante, poiché sussiste l’illecito rappresentato dallo svolgimento di una attività di smaltimento in assenza di autorizzazione.

La mancanza di comunicazione va, invece, correttamente contestata solo nei casi in cui l’attività posta in essere è, in pieno, qualificabile come recupero, difettando soltanto il rispetto delle procedure previste per tale forma di gestione (la pena comunque è sempre quella di cui all’articolo 256, comma 1) (13) (14).

Alla carenza di comunicazione va equiparata l’ipotesi di invio di comunicazione priva dei requisiti prescritti dalla legge (15).

Analizziamo, dunque, di seguito, le varie ipotesi che possono, nel concreto, presentarsi:

• una piattaforma vende il macero ad un intermediario anziché ad una cartiera;

• una piattaforma vende il macero direttamente ad una cartiera;

in entrambi i casi, il gestore della piattaforma dovrà dimostrare che le Mps prodotte nella sua piattaforma sono andate ad effettivo recupero, precostituendosi un fascicolo ove siano contenuti tutti i dati più sopra evidenziati ai fini della effettività del recupero (contratto, ecc. e soprattutto indicando nel Ddt il nome della cartiera di destinazione).

Diversamente, si deve necessariamente parlare di rifiuti che devono viaggiare con formulario, mediante mezzi autorizzati e recapitare in impianti autorizzati per la gestione dei rifiuti ecc. Infatti, si ricorda che ex articolo 3, comma 3, Dm 5 febbraio 1998 le Mps sono dei rifiuti “depotenziati”, poiché “restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione” ove l’elemento dirimente per far “trasmigrare” prodotti, materie prime e Mps derivanti dalle attività di recupero dall’alveo dei rifiuti a quello di Mps risiede solo ed unicamente nel fatto che essi sono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo in un ciclo produttivo o di consumo e non in altro.

• una piattaforma vende il macero ad un’altra piattaforma:

poiché presso le piattaforme si effettua la messa in riserva, tali piattaforme devono essere necessariamente autorizzate quantomeno per la messa in riserva. Se entrambe sono autorizzate in regime agevolato la messa in riserva (R13) “è consentita una sola volta ed ai soli fini della cernita o selezione o frantumazione o macinazione o riduzione volumetrica dei rifiuti” (articolo 6, comma 8, Dm 5 febbraio 1998).

In questo caso, i rapporti tra le due piazzole sono regolati dalla disciplina sui rifiuti. Dalla prima piazzola non potranno mai uscire Mps (se così fosse la destinazione naturale consentita dal Dm 5 febbraio 1998 è la cartiera e non un’altra piazzola) ma solo rifiuti di carta. È solo dalla seconda piazzola che (sempre osservando il regime probatorio più sopra evidenziato) possono originarsi le Mps, secondo il dettato del Dm 5 febbraio 1998.

4 - I problemi più attuali nelle transazioni sul macero


4.a) Il principio di non sovrapponibilità tra procedure ordinarie e procedure semplificate
Con sentenza 4 luglio 2000, n. 1492, la Corte di Cassazione III Sezione penale aveva ritenuto che nel caso in cui una impresa intenda svolgere attività di raccolta e trasporto di rifiuti che siano effettivamente avviati al recupero ed al riciclaggio deve procedere all’iscrizione all’Albo gestori in forma semplificata. Il che ricorre anche nel caso in tale impresa sia già iscritta all’Albo medesimo in forma ordinaria.

In tal modo la Corte riaffermava in principio di non sovrapponibilità che si concreta, in sostanza, in ragione del fatto che tra le due procedure d’iscrizione all’Albo esiste una profonda differenza non solo ontologica (quella ordinaria è una vera e propria autorizzazione, quella agevolata è un accertamento costitutivo) ma anche – di conseguenza – procedurale.

Il principio veniva affermato, in quella sede, dal giudice di legittimità solo con riferimento alla categoria del trasporto.

Successivamente, con sentenza 5 ottobre 2006, n. 33467, ancora la III Sezione penale della Corte di Cassazione (che non fa alcun riferimento al Dlgs 152/2006, pur vigente all’epoca della pronuncia), riaffermava il principio di non sovrapponibilità tra la procedura ordinaria e quella semplificata (rinviando anche alla propria citata sentenza 1492/2000) e ricordava che “le due procedure non sono sovrapponibili per quanto concerne i presupposti e gli elementi di valutazione portati al vaglio della Pubblica amministrazione, per cui il soggetto iscritto in via semplificata non può svolgere le attività per cui necessita la procedura normale e viceversa”.

Tuttavia, la circolare del Comitato nazionale dell’Albo 27 luglio 2007, n. 155, alla luce dell’articolo 212, comma 20, Dlgs 152/2006, sembra aver fatto chiarezza sul punto, disponendo quanto segue:

• l’impresa di trasporto iscritta con procedura ordinaria (catt. 1, 4 e 5) può (in osservanza dell’articolo 212, comma 20, Dlgs 152/2006) trasportare i rifiuti anche presso impianti di recupero che operano in base alle procedure semplificate;

• l’impresa di trasporto iscritta con procedura semplificata (catt. 2 e 3) non può trasportare i rifiuti presso impianti che operano in procedura ordinaria.

In sostanza, grazie all’articolo 212, comma 20, Dlgs 152/2006, l’Albo gestori afferma una non sovrapponibilità solo parziale, escludendo il “viceversa” affermato dalla Cassazione.

È necessario sempre, tuttavia, ricordare che l’articolo 212, comma 18, Dlgs 152/2006 fa riferimento sempre al recupero effettivo ed oggettivo.

Quindi, ancora una volta vige il principio relativo al fatto che chi vuole fruire di un regime di favore deve provarlo, cioè deve provare l’oggettività e l’effettività del recupero secondo i canoni più sopra individuati.

In considerazione di quanto precede, si ritiene che;

un’impresa autorizzata per la messa in riserva della carta da RD ecc. in base alle procedure semplificate (articoli 214 e 216, Dlgs 152/2006) può conferire i propri rifiuti ad un impianto autorizzato con procedura ordinaria tramite un trasportatore iscritto nelle categorie Albo 1 o 4, perché le categorie d’iscrizione ordinaria non vincolano l’attività alla destinazione, ma solo alla natura, alle tipologie e alla provenienza dei rifiuti trasportati. Infatti, la categoria 1 riguarda “raccolta e trasporto dei rifiuti urbani”, la categoria 4 riguarda “raccolta e trasporto dei rifiuti speciali non pericolosi prodotti da terzi” (16);

un’impresa autorizzata per la messa in riserva della carta da RD ecc. in base alle procedure semplificate (articoli 214 e 216, Dlgs 152/2006) non può conferire i propri rifiuti ad un impianto autorizzato con procedura ordinaria tramite un trasportatore iscritto nella categoria Albo 2, perché tale categoria prevede un obbligo in ordine alle operazioni di gestione cui sono destinati i rifiuti stessi (17). Infatti, in tale categoria 2 è esplicitamente citato (per relationem) il Dm 5 febbraio 1998.

4.b) Il “disaccordo” internazionale
L’articolo 28 (“Disaccordo in merito alla classificazione dei rifiuti”), comma 1, regolamento (Ce) 1013/2006 stabilisce che “se le autorità competenti di spedizione e destinazione non si accordano in merito alla classificazione dei materiali come rifiuti o no, detti materiali sono trattati come rifiuti. Ciò avviene fatto salvo il diritto del paese di destinazione di trattare i materiali spediti, dopo il loro arrivo, conformemente alla legislazione nazionale, allorché tale legislazione è conforme alla normativa comunitaria o al diritto internazionale”.

Come è evidente, l’interpretazione tra le autorità competenti di spedizione e destinazione, in caso di disaccordo, deve propendere per la tesi più restrittiva; pertanto, le Mps non riconosciute come tali da uno dei Paese della transazione non esistono e sono sempre rifiuti.

Questo rende evidente che, in caso di esportazione, il macero non può arrivare alla frontiera come Mps e poi trasformarsi in rifiuto; oppure in caso di importazione non può arrivare come rifiuto e poi trasformarsi in Mps.

Quindi, in caso di disaccordo sulla qualifica di Mps o rifiuto riferita al macero in caso di export, il macero (ai sensi del su riportato articolo 28, comma 1) è sempre un rifiuto, durante tutta la sua esistenza.

4.c) Se i rifiuti sono avviati alle operazioni di recupero all’estero tramite un trasportatore estero, come comportarsi in ordine alle autorizzazioni al trasporto?
Sotto il profilo operativo, le possibilità sembrano essere le seguenti:

- il trasportatore estero carica i rifiuti e li trasporta direttamente all’impianto estero di destinazione;

- il trasportatore estero carica i rifiuti e li trasporta fino ad un porto dal quale vengono poi imbarcati e spediti via mare.

A fronte di tale realtà operativa, spesso ci si chiede se è sufficiente verificare che il trasportatore abbia un’autorizzazione al trasporto di rifiuti nel proprio paese, oppure se sia necessario che costui sia anche iscritto all’Albo gestori ambientali.

Sul punto, è bene osservare che il tragitto verso l’estero può essere “unico” (es. da Roma ad Hong Kong senza il carico venga mai scaricato su territorio nazionale) oppure “frazionato” (es. da Roma ad Hong Kong, ma il carico viene scaricato a Bari).

Se nelle esportazioni di macero si utilizza l’allegato VII, regolamento (Ce) 1013/2006 (in quanto il macero è presente nell’elenco verde di tale regolamento), è evidente che si sta parlando di macero = rifiuto.

Si ricorda, inoltre, che l’articolo 3, comma 3, Dm 3 settembre 1998, n. 370 “regolamento recante norme concernenti le modalità di prestazione della garanzia finanziaria per il trasporto transfrontaliero di rifiuti” stabilisce che “fatti salvi eventuali specifici accordi internazionali e le norme che disciplinano il trasporto di merci, il trasportatore deve essere autorizzato all’effettuazione del trasporto di rifiuti ai sensi dell’ordinamento italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea”.

Pertanto, si ritiene che:

• se il tragitto è “unico” (es. da Roma ad Hong Kong senza il carico venga mai scaricato su territorio nazionale) il trasportatore deve essere autorizzato dall’autorità competente del proprio Paese. In questo caso i documenti di trasporto internazionale sostituiranno il formulario di cui all’articolo 193, Dlgs 152/2006;

• se il tragitto è “frazionato” (es. da Roma ad Hong Kong, ma il carico viene scaricato a Bari) per la tratta italiana (nel nostro esempio: da Roma a Bari) il trasportatore deve sempre e necessariamente essere iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali. In questo caso i documenti di trasporto internazionali sostituiranno il formulario di cui all’articolo 193, Dlgs 152/2006 solamente dall’ultimo punto di partenza su suolo nazionale verso l’estero. Mentre, per il tragitto nazionale il formulario sarà sempre necessario (nell’esempio da Roma a Bari).

Non appare di alcun pregio, sotto il profilo della disciplina di settore, affermare che non tutti i trasportatori esteri hanno sede secondaria in Italia e, quindi, non possono essere iscritti all’Albo nazionale gestori ambientali. In questo caso, infatti, quel soggetto non potrà operare su territorio italiano.

Ovviamente, vale il reciproco in caso di importazioni. Quindi, se il carico giunge in Italia con l’allegato VII al regolamento (Ce) 1013/2006, è evidente che si tratta di rifiuti.

Se il tragitto è “frazionato” il trasportatore deve essere iscritto all’Albo e portare il formulario. L’impianto che li riceve (commerciante, piattaforma o cartiera) prende dei rifiuti, quindi deve essere necessariamente autorizzato (anche in forma agevolata).

In tal caso, è necessario verificare l’iscrizione (agevolata o ordinaria) all’Albo del trasportatore. Per le relative limitazioni si veda il precedente punto 4.a).

5 - Alcune ipotesi solutorie

Per la sopravvivenza dell’economia di settore e quindi per la conservazione del senso ecologico ed economico delle raccolte differenziate della carta, è necessario che il sistema venga ripensato in termini di obblighi, studiando una filiera “ad hoc” che non faccia ricadere nella disciplina generale del recupero il macero. Infatti, i principi del recupero sono noti e devono essere applicati. Del resto, se è stato possibile per i Raee (spesso pericolosi), non si vede il motivo per il quale ciò non debba essere possibile per la carta. Si pensa, in una prima meditazione:

• ad una serie di chiarimenti operativi forniti con circolare ministeriale che delinei con assoluta chiarezza il discrimine tra Mps e rifiuti, anche con riferimento al regime di prova dell’effettività del recupero.
• poiché resta, tuttavia, certo ed assodato, che in caso di import-export se il Paese estero non concorda con la qualifica di Mps nazionali, il macero deve sempre necessariamente seguire la filiera del rifiuto si potrebbero immaginare alcune soluzioni, avallate da provvedimenti legislativi e regolamentari, come ad esempio:

- iscrizione “light” all’Albo gestori di trasportatori ed impianti (sulla scorta dell’articolo 212, comma 8);

- possibilità di sostituire i registri di carico e scarico con la conservazione dei formulari (sulla scorta dell’articolo 11, legge 29/2006 che la prevede per i rifiuti pericolosi dei professionisti singoli);

- completa attuazione della definizione di “centro di raccolta” di cui all’articolo 183, comma 1, lett. cc), Dlgs 152/2006, di cui il Dm 8 aprile 2008 rappresenta solo una prima attuazione con riferimento ai soli rifiuti urbani;

• in ogni caso, per preservare le informazioni commerciali, si potrebbe immaginare un Accordo di Programma tra Ministero dell’ambiente e Autorità garante della privacy, al fine di trovare delle soluzioni accettate anche dagli organi di controllo per garantire loro la tracciabilità (es. in calce al Ddt – in caso di Mps – potrebbe essere inserita la seguente indicazione “i dati relativi all’impianto dove si effettuerà l’effettivo recupero sono disponibili a richiesta delle autorità di controllo presso XXYYZZ S.r.l. tel. ecc.)”.

Per quanto riguarda l’export è assolutamente necessario un intervento ministeriale che chiarisca in modo univoco la disciplina per rendere uniformi le più disparate condotte finora registrate sul territorio nazionale, fra le quale si censiscono le seguenti:
a) magazzino che compila allegato VII fin dalla partenza iscrivendosi sia come soggetto che organizza la spedizione sia come produttore del “rifiuto” carta.
b) broker che compila allegato VII fin dalla partenza come soggetto che organizza la spedizione e iscrive il magazzino come produttore.
c) broker che compila allegato VII solo dopo le operazioni doganali (dalla nave in poi), mantenendo il trasporto interno (dal magazzino al porto) con solo Ddt.
d) tutte queste procedure non hanno trovato alcuna risposta certa in sede Ministeriale e sono lasciate alla libera creatività e al buon senso delle singole aziende.
e) La casistica si complica ulteriormente con:

• broker che aggiunge un formulario rifiuti, chiedendo alla Dogana di timbrare e restituire la quarta copia;

• broker che compila solo l’allegato VII ma utilizza trasportatori autorizzati al trasporto rifiuti nella tratta nazionale, senza peraltro registrare alcuna operazione nell’apposito registro di carico/scarico;

• broker che utilizza allegato VII senza vettore autorizzato ma con semplice Ddt;

• trasportatore che, all’insaputa di broker e magazzini, registra ogni operazione di trasporto sul proprio registro di carico e scarico.

Sarebbe veramente ora di pensarci.

6 - Una riflessione finale

Ci sia consentita, infatti, una domanda: l’Italia è un Paese maturo per disciplinare un reale mercato di quanto non ha senso che finisca in discarica oppure è un Paese che si ostina ancora a parlare (rectius: blaterare) di raccolte differenziate sperando che il ciclo del recupero si chiuda con la “campana”, ignorando la necessità di una successiva filiera commerciale ed industriale disciplinata ed uniforme?

La particolare situazione del macero sembra proprio deporre a favore della seconda ipotesi.

_______________

(1) Ci sia consentito rinviare a P. Ficco “La messa in riserva agevolata dei rifiuti e la natura giuridica dello standard” in Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” n. 127 (3/2006), p. 9.
(2) Pronunciandosi in ordine alla legittimità costituzionale dell’articolo 14, Dl 138/2002.
(3) Cass. Pen., Sez. III, 29 dicembre 2005, n. 47277 con riferimento a cascami e ritagli di pelle ha ritenuto che .."per la messa in riserva, selezione e cernita dei residui di pellame (attività comprese nell’allegato 1, Dm 5 febbraio 1998, punti 8.5 e 8.6) effettuate dall’indagato è consentita la procedura semplificata di cui al Dlgs 2/1997, articolo 33, essendo state rispettate le condizioni di cui all’articolo 6 dello stesso Dm. Pertanto, non è puntuale il ricorso del Pm secondo cui non sarebbero state rispettate le modalità di recupero (par. 8.5.3) e la tipologia dei prodotti recuperati (par. 8.5.4) risultando, invece, che veniva svolta attività di recupero mediante «riutilizzo tal quale nell’industria manifatturiera e della pelletteria» (par. 8.5.3 lett. b) effettuando, cioè, la selezione e la cernita manuale non occorrendo alcun macchinario, come sostenuto in ricorso del pezzame; la collocazione dei ritagli di uguale dimensione in buste e la spedizione del prodotto costituito da “pelle di litate dimensioni (par. 8.5.4.), alla clientela estera”.
(4) Si veda art. 1, comma 2, legge 11 novembre 1996, n. n. 575 recante “sanatoria degli effetti della mancata conversione dei decreti-legge in materia di recupero dei rifiuti”.
(5) Cfr ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 2557 del 25 ottobre 1994; Sez. III, 274 del 12 gennaio 1996; Sez. III, 18195 del 17 maggio 2005.
(6) Cass. pen., Sez. III, 1016 del 31 gennaio 1995; Sez. III, 1726 del 17 maggio 1996. È necessario che i residui, pur astrattamente Mps in quanto rientranti nelle tipologie elencate nell’allegato al Dm 26 gennaio 1990, lo diventino in concreto, attraverso la comprovata, effettiva ed oggettiva destinazione al riutilizzo, Sez. III, 1206 del 14 giugno 1994.
(7) Cass. pen., Sez. III, 881 del 3 maggio 1995; Sez. III, ord. n. 2666 del 12 ottobre 1994.
(8) Cass. pen., Sez. III, 4706 del 23 aprile 1994; Sez. III, 22511 del 15 giugno 2005.
(9) Cass. pen., Sez. III, 11007 del 27 settembre 1999 secondo la quale: “La prova della destinazione al riutilizzo dei rifiuti deve essere obiettiva, univoca e completa, non potendosi tenere conto solo delle affermazioni o delle intenzioni dell’interessato, posto che i rifiuti richiedono un corretto e tempestivo recupero, se possibile e dimostrato, oppure il loro smaltimento in modo compatibile con la salute e l’ambiente, interessi primari della società”.
Il principio di effettività è stato recentemente oggetto di Cass. pen., Sez. III 8050 del 27 febbraio 2007; Sez. III, sent. n. 16955 del 4 maggio 2007.
(10) Si veda P. Fimiani “La Cassazione torna sulle Mps” in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” n: 152 (6/2008), p. 35.
(11) Si veda P. Fimiani ibidem.
(12) Recitava la norma: “3. Individuazione delle materie prime secondarie.
1. Ferme restando le esclusioni di cui all’art. 1 sono individuate come materie prime secondarie:
a) i residui elencati nell’allegato 1 al presente decreto con provenienza e destinazione finale conforme a quanto previsto nell’allegato medesimo;

b) altri residui, derivati direttamente da processi produttivi, dei quali il detentore possa dimostrare, sulla base di idonea documentazione contrattuale, l’effettiva destinazione al riutilizzo;

c) materiali derivanti dalle operazioni di selezione o trattamento dei rifiuti industriali o rifiuti solidi urbani – diversi da quelli di cui alle lettere a) e b) – effettuate da parte di soggetti autorizzati alle suddette operazioni e trattamenti ai sensi della normativa vigente, purché risulti da idonea dichiarazione dello smaltitore la provenienza dei medesimi nonché l’effettiva destinazione delle materie prime secondarie al riutilizzo”.
Sul punto, la Corte Costituzionale affermò che “l’art. 3 del decreto ministeriale 26 gennaio 1990 del Ministro dell’ambiente, allo scopo di prevenire abusi o frodi nel traffico dei rifiuti o nel loro riciclaggio, ha, pertanto, considerato non sufficiente come mezzo di prova dell’esistenza di una “materia prima secondaria” la mera volontà contrattuale o la semplice dichiarazione dello smaltitore, ma ha implicitamente richiesto, nel prevedere il requisito della loro “idoneità”, che quelle manifestazioni di volontà siano accompagnate da dati oggettivi e inequivocabilmente certi, quali, ad esempio, la possibilità tecnica che un certo residuo possa essere riutilizzato come materia prima in un ulteriore processo produttivo, la convenienza economica dell’impiego della materia prima secondaria rispetto a quello della corrispondente materia prima, la destinazione produttiva specifica verso la quale il residuo è indirizzato e, ove abbia oggettiva rilevanza, la provenienza del residuo stesso. Inoltre, lo stesso decreto ministeriale, sempre in collegamento necessario con il requisito della “idoneità” della documentazione contrattuale e della dichiarazione dello smaltitore, ha espressamente previsto agli articoli successivi una serie di adempimenti (“obbligo di dichiarazione”, “obbligo di informazioni”, tenuta dei registri di carico e di scarico, “scheda di identificazione”) e di controlli rivolti ad accertare l’effettiva e oggettiva destinazione finale del residuo e a verificare la corrispondenza alla realtà della documentazione contrattuale o della dichiarazione dello smaltitore”.
(13) Cass. pen., Sez. III, 19578 del 28 aprile 2004 che fornisce i parametri operativi per verificare se una data operazione è ascrivibile al concetto di recupero (nella specie, messa in riserva), ove si afferma che “l’art. 6, Dm 5 febbraio 1998, … che assoggetta la configurabilità della “messa in riserva” al rispetto di determinate condizioni generali, quali: lo stoccaggio dei rifiuti da recuperare separato dalle materie prime eventualmente presenti nell’impianto; lo stoccaggio separato per rifiuti tra loro incompatibili; l’accatastamento dei rifiuti su basamenti pavimentati o addirittura impermeabilizzati. Inoltre, per i rifiuti della tipologia di quelli in questione (pneumatici di veicoli cod. Cer 160103), rientranti nella categoria 10 del suballegato 1 del menzionato decreto ministeriale (“Rifiuti solidi in caucciù e gomma”), la messa in riserva, per le successive operazioni di recupero, prevede: il lavaggio, la triturazione e-o la vulcanizzazione “cod. 10.2.3.” (per i pneumatici non ricostruibili) ovvero la selezione e accettazione delle carcasse “cod. 10.3.3.” (per i pneumatici ricostruibili). Da tale panorama normativo, risultando in fatto accertato che l’imputato – in epoca antecedente al decorso dei novanta giorni dalla comunicazione alla provincia – si era limitato ad accatastare i pneumatici senza compiere alcuna delle operazioni sopra indicate, che connotano la “messa in riserva” dei rifiuti, discende che l’imputato, all’epoca dell’accertamento dei fatti, non aveva ancora iniziato le operazioni di recupero”.
(14) Si veda P. Fimiani, ibidem.
(15) Cass. pen., Sez. III, 9383 del 28 febbraio 2003.
(16) Cfr. E. Onori, “I chiarimenti dell’Albo sui limiti dell’iscrizione semplificata per il trasporto dei rifiuti recuperabili”, Tribuna Albo gestori in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” n. 145 (11/07), p. 50.
(17) Si veda E. Onori, ibidem.

Url : http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=13853
Fonte: Greenreport & Reteambiente

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